Ho visto troppi film, troppi episodi
delle serie in TV: non potrei proprio
di nuovo appassionarmi.
Troppi libri
da solo in treno ho letto sulla tratta
fra Rimini e Cesena tutti i giorni
oppure in autobus, sul cesso, in viaggio
fino a Roma in corriera; troppi versi
ho scandito sul tavolo di fòrmica
in cucina, sul tavolo di tek
tamburellando con le dita in sala,
sul tavolo di marmo a Montescudo
ed ho studiato invano troppe lingue
senza capirci un’acca; troppi viaggi
senza una vera meta un po’ schizzati
a casaccio su mappe immaginarie
dei tempi della scuola, troppi gli anni
trascorsi da quell’ultimo, feroce
turbamento, perché il mio corpo possa
ancora riprodurre quegli spasmi
di quando la incrociavo, i verdi sbocchi
di bile, se parlava a un altro: troppe
partite a maraffone sulla spiaggia
sul lettino a tre piazze per potere
dimenticare quella luce azzurra
vagamente assassina dei suoi occhi
(l’ultimo amore non si scorda mai!)
ed il walzer notturno a Ferragosto
nel cortile di dietro alla Parrocchia
Stella Maris elettrico e silente
(a Milano Marittima), profondo
immenso e voluttuoso come un blu
di Prussia in cui precipiti, virando,
il carminio che goccia dagli stipiti
alla porta dei miei perduti amori;
troppe diete iniziate e mai concluse,
troppe crisi per credere in qualcosa
troppa musica, sì, troppe canzoni
ficcate dentro ad un lettore, troppe
notti passate in bianco alla tastiera
a colloquio con altri soliloqui,
troppi insulti patiti per avere
(la verità è che non piaccio abbastanza)
almeno un qualche straccio di autostima:
troppi progetti senza mai provarci
sul serio, ad Orïente o ad Occidente
troppe cadute di un Impero, troppi
Grandi Assedi subiti (vinti o persi),
troppe questioni mai risolte, troppe
(c’è gioia ahimè nella ripetizione?)
le prime volte inutili e fallite.
Ma la nostra cenetta, a Galeata,
a lume di candela, clandestina
a noi stessi perfino, tutta fitta
di motti, di schermaglie spiritose,
affabile e discreta, un po’ maliarda,
come una grazia fioca, opalescente,
trasparente al ricordo, impermeabile,
cammeo baluginoso incastonato
negli occhi bui, dormienti di Sant’Èllero:
non scorderò!
Non scorderò io, no,
quella brigata allegra alla ricerca
dei tortelli alla lastra sul Bidente
nel bel solstizio di Santa Sofia
inaspettato, terso e numinoso
quasi quanto il monologo interiore
che, guardando dall’alto Brisighella,
ho intrattenuto cogli dèi, bizzarri,
giulivi della sera, appollaiati
sulla torre con me, mentre di sotto
si celebrava in festa il Medio Evo:
non scorderò!
Non scorderò io, no,
e, insieme, questa vita tutta quanta —
in attesa da sempre che cominci —
miticamente assurda, popolata
di personaggi strambi, improponibili,
di sodalizi, (ma perché — mi chiedo —
non posso avere amici come tutti
gli altri?) stenti e precari, tutta quanta
atroce e scarna: un rigo di traverso
ai raggi obliqui del tramonto, fratti
dai cristalli in un tardo aperitivo
di giugno alla riviera di ponente
come un arco sotteso a questa voglia,
retrograda ed inversa e già perversa,
matta, mai confessata, mai sopita
di rivivere le mie prime volte,
ma ancora — e sempre — per la prima volta.