a A.T.
Anche per te ho ceduto al vezzo atavico
della scrittura.
In queste poche sillabe
stralciate da un idioma
oscuro e impronunciabile (per questo
il dialogo si è spento tra di noi?)
incastono un cammeo, quasi regalo
incognito a me stesso, e sensi falsi
che non salvano il dopo (si trascina
in me il prosieguo degli eventi contro
espressa volontà).
Quanto vorrei
che serbo mio malgrado intatto, infine,
fare quel sogno che non viene: fingo
allora che sia sogno e che sul retro
tra un viluppo di fronde che già sgrondano
allegro buio e amenità di sonni
un tuo doppio di troppo si affiguri,
spaventoso e rovente sul selciato
e un afono dileggio è il suo sermone;
sa di endivia, di incanti, di stridìi
di gesso su lavagna, dei bei tempi
che non so rievocare e che non so
se siano mai stati. Mi riporta
appena discernibili le sabbie
del Mar Morto intracciate,
Cafarnao e Betlemme, la geenna
di estinzioni e lamenti e di ripalpiti
appena appena (è la maturità?).
Così è che mi perdo in un perpetuo
salire, mi scoscendo di vertigini,
di terrazzo in terrazzo fino al cielo
e sento infine o credo di sentire
leggendo il tuo pensiero o dico io stesso :
“Chi ha amato tante volte ancora, ancora
amerà – ti assicuro – e nuovi volti
succederanno a questi, nuovi giorni….”.
Quel che c’è dopo è tutto da inventare,
ma sognando di un sogno che sia vero
forse ho intuito la mia verità.