Sogni belli davvero ne ho fatti troppo pochi
così pochi che posso anche contarli
come posso contare quante volte ho rivisto
Venezia, serenissima, e con chi
astrologavo invano la fuga in vaporetto,
quante volte in margine a un’aurora
sgangherata e felice — come un rivetto d’oro
ribattuto sul petto — tutta quanta
(da Kastorià a Kavala, da Salonicco a Festo)
mi ha investito la Grecia, tante volte
ho imperato a New York dal sommo dell’Empire,
quante meno mi sa che sono state
tutte insieme le volte che travolto dal rivo
rapinoso di furia e di fracasso
di un ricordo ho preteso poterlo incastonare
come perla o diamante in un diadema.
Sogni belli davvero ne ho fatti troppo pochi
(quanto ho sognato spesso di sognarli!),
ma non ho mai tenuto ai sogni, non li ho attesi,
mai ho provato di realizzarli
e, in fondo, non ci ho mai veramente creduto,
non li trascrivo più nel diario e quando
qualcuno me ne parla, dentro di me sorrido:
ricordo, quando in viaggio per l’America,
a colazione tutti raccontavamo i sogni
fatti la notte prima e sempre i miei
erano foschi, strani — incubi per lo più.
A dirla tutta, li ho considerati
sempre risciacqui, scarti diurni o poco più.
Ancora adesso preferisco il tempo
della veglia e, quando, poi, viene l’equinozio
è tripudio di peschi e di ciliegi.